martedì 8 luglio 2014

Il mito di Domenico Tiburzi.

La storia del brigantaggio in Italia ha prodotto una quantità di libri, il cui successo è spesso dovuto  da un'attrazione ed immedisimazione tra il lettore ed il brigante, visto come una sorta di moderno Robin Hood che vendica le ingiustizie subite dai più deboli.
Anche il brigantaggio maremmano è stato spesso raccontato così, con una visione mitica se non addirittura romantica, a cominciare dai resoconti del viaggio europeo del Gran Tour, quando l'incontro con i briganti era considerato  un'avventura eccitante. Come spesso accade la realtà era completamente diversa e  nella maggior parte dei casi  i briganti altro non erano che dei crudeli taglieggiatori senza alcuna velleità politica o volontà di giustizia sociale.
In questo quadro una parziale eccezione è costituita dalla figura di Domenico Tiburzi che  nacque a Cellere, un piccolo borgo rurale  del viterbese nel 1836.

Cellere (VT)
Sposato con figli, manteneva la  famiglia lavorando come guardiano di bestie. Come quasi sempre accadeva, la magra paga di pastore veniva arrotondata cacciando di frodo e portando gli animali a pascolare dentro le terre nelle  altre tenute. Dopo essere stato più volte colto in fallo, alla fine,  uccise un guardiano della tenuta dei marchesi Guglielmi  e questo episodio segnò la svolta nella sua vita.  Venne processato e condannato a diciotto anni di prigione dalla quale  evase per iniziare  la sua carriera di latitante e di brigante. 
Domenico Tiburzi riuscì a sfuggire alla cattura per ben ventiquattro anni perchè si dimostrò più intelligente degli altri briganti. Si muoveva in un territorio che conosceva perfettamente e che lo favoriva, a contatto con una popolazione composta da braccianti stagionali, butteri, caprai, carbonai e vergai, che non solo lo temevano ma lo consideravano come  uno di loro.

il cadavere di Tiburzi esposto dopo la sua morte
Il Tiburzi volle costruire il suo mito imponendo sia tra gli altri briganti che tra  la popolazione maremmana l'immagine di un'autorità prestigiosa e feroce. 
Con pochi fidati compagni si muoveva continuamente taglieggiando i ricchi in maniera costante ma con discrezione, imponendo loro una sorta di pizzo che garantiva comunque la tranquillità dei possedimenti. La debolezza della forza pubblica, formata da pochi uomini demotivati e la latitanza delle istituzioni use alla pratica dell'"estatura" , oltre ad un territorio impenetrabile, costituirono le condizioni che  permisero la  nascita della leggenda del bandito "livellatore", colui che toglieva a chi aveva troppo per darlo ai più diseredati, l'uomo che sapeva essere spietato con i traditori ed al tempo stesso generoso quando distribuiva il chinino ai malati di malaria, pagava la dote alle ragazze o il dottore alle partorienti ed ai malati. 
Quando stanco e vecchio, tra il 23 ed il 24 ottobre 1896 venne ucciso da una pattuglia di carabinieri nei pressi di Capalbio , Domenico Tiburzi aveva comunque costruito il suo mito che continua ancora oggi.

tomba di Tiburzi a Capalbio
foto by piratidellafenice
Subito dopo la sua morte venne composta una canzonetta che diceva :
" Morto è l'intrepido forte leone
e il corpo esamine, giacente e spento, 
pur dopo morto mette spavento.
Nel volto pallido, barbuto e fiero, 
potevi scorgere il cavalliero,
potevi scorgere che quel brigante
aveva nobile, civil sembiante.


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